sabato 30 maggio 2009

SUL BOLERO DI RAVEL

SUL BOLERO DI RAVEL,
CRONACA DI COMPLESSA SEMPLICITÀ
di Marco Buccolo
CHI TROPPO CHI NIENTE
Su alcune composizioni si esige che l’analisi spieghi, approfondisca, trovi significati nuovi, o almeno non percepibili ad un semplice ascolto. Su altre composizioni l’analisi non è nemmeno ricercata, perché si crede che sia un’operazione inutile, o scontata, assolutamente sovrabbondante rispetto all’essenzialità e alla semplicità dell’opera presa in considerazione. Probabilmente la situazione del Bolero di Maurice Ravel è di questo secondo tipo: un brano noto - forse fin troppo - di struttura ossessivamente ripetitiva nel ritmo e nella melodia che il grande pubblico crede di fischiettare correttamente, di timbrica costruita secondo sovrapposizioni crescenti, dove la curiosità dell’ascoltatore sembra più che altro portata a individuare con lo sguardo lo strumento che viene via via ad aggiungersi agli altri già interpellati. Di sicuro la celebrità e la chiarezza del risultato sonoro non sembrano dare spazio a ulteriori parole. La stessa discografia, quando si tratta del Bolero, tralascia ogni contorno per dedicarsi ad altri soggetti ritenuti più impegnativi per un vasto pubblico.
Anche Maurice Ravel si nascondeva dietro un velo di semplicismo: piccola cosa, diceva del Bolero, più che altro un esercizio di orchestrazione. Insomma, neppure l’Autore si portava sul terreno dell’analisi. Ma per lui questa era un’abitudine. Per le “note di copertina”, invece, è visibilmente un’eccezione.
In effetti, la scrittura del Bolero è fortemente disarmante. Le caratteristiche di base sono facilmente riassumibili, andando da un livello percettivo più generico ad uno più particolare: ostinato ritmico, ripetizione ciclica della melodia, sovrapposizione progressiva del totale sinfonico, tonalità fissa e determinata di do maggiore, scansione accentuativa regolare, nessuna sorpresa durante il percorso se non la modulazione conclusiva strappa applauso. Un meccanismo sonoro che non lascia proprio nulla da dire. Ottimo nascondiglio, Maurice.
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MAURICE HAS JUST LEFT THE BUILDING
Per di più, forse Ravel sottolineava la semplicità di questa composizione anche a causa dell’occasione che l’aveva prodotta. Si trattò in effetti di una specie di emergenza. Ida Rubinstein aveva commissionato a Ravel l’orchestrazione di Iberia di Albeniz, e questo impegno era stato assunto con piacere. Durante un viaggio in Spagna, però, Ravel venne informato che i diritti per l’orchestrazione delle opere di Albeniz erano già stati ceduti a Enrique Arbos. Un nuovo incontro con Ida Rubinstein, dopo un ritorno veloce a Parigi, fu occasione di accordarsi per una composizione originale, che venne completata nell’ottobre del 1928 durante un soggiorno a Saint-Jean-de-Luz.
Il Bolero fu eseguito comunque il 20 novembre del 1928 all’Opéra, insieme a La Valse. «E’ una danza in tempo moderatissimo - scrive Ravel - e costantemente uniforme, tanto nella melodia che nell’armonia e nel ritmo, quest’ultimo scandito senza tregua dal tamburo. Il solo elemento di diversità è fornito dal crescendo orchestrale». Il progetto dell’orchestrazione di Albeniz si era spostato su una composizione originale, mantenendo intatta l’intesa di fondo: è il suono, è la timbrica a essere protagonista. «Una volta trovata l’idea - aggiungeva - qualsiasi allievo di conservatorio doveva, almeno fino alla modulazione, riuscire come me».
Si sta avvicinando, nella biografia di Ravel, il periodo di rallentamento dell’attività compositiva. Dopo il 1928 (che vide oltre alla première del Bolero anche il conferimento della Laurea Honoris Causa dall’Università di Oxford e il trasferimento a Levallois presso il fratello) vedranno luce il Concerto in re per la mano sinistra (27 novembre 1931) e il Concerto in sol per pianoforte e orchestra (14 gennaio 1932). Nel 1933 comincerà a manifestarsi l’apraxia, una malattia di origine cerebrale che limiterà Ravel nei movimenti, pur -3-
senza togliergli la lucidità mentale. Ida Rubinstein gli offrirà nel ’35 un viaggio in Spagna e Marocco, in compagnia dell’amico pittore Léon Leyritz, ma questo non porterà alcun giovamento: il male si aggraverà fino a render necessario in intervento chirurgico, nel ’37, che lo porterà alla morte, il 28 dicembre, a 62 anni.
IL RIT(M)O DEL BOLERO. PARTE PRIMA: RITMO.
La natura ritmica del Bolero ha di fisso solo l’aspetto ternario. Quella che Ravel adotta come terzina di semicrome, all’interno di una regolare scansione di ottavi, è una delle possibilità che il Bolero offre nell’arco della sua tradizione. Nel tempo, infatti, questo ritmo ha tanto visto la presenza della terzina di semicrome come della quartina di biscrome. Allo stesso modo, questi gruppi sono solitamente collocati sul tempo della seconda croma, mentre Ravel sceglie di ripetere il modulo “terzina” sul tempo, sì, della seconda croma, ma anche della quarta. Queste varianti non sembrano apportare né sottrarre al Bolero nessuna delle sue qualità specifiche. Mantenendo fissa la globale ternarietà della battuta, ciò che resta caratteristico è una sorta di colpo di frusta, di vibrazione ritmica sul tempo debole, che viene ad interrompere la regolarità della suddivisione dei quarti. Il fatto che questa “vibrazione” sia quartina o terzina, in fondo, passa inosservato. Come è irrilevante, in fondo, la scelta di ripetere il modulo in altra sede.
Potrebbe sembrare solo una questione di gusto della varietà, di volontà di spezzare ad ogni costo la “monotonia interna” del ritmo. E’ possibile comunque riscontrare, all’interno della struttura adottata da Ravel, un gioco di simmetrie e asimmetrie. Possiamo mettere in evidenza questo fattore attraverso un duplice modello si scomposizione.
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a) Scomposizione per quarti (seminiminime)
Se noi consideriamo come A, come B, e come C, la frase ritmica composta da due battute di ¾ ciascuna appare strutturata secondo uno schema AAB, AAC.
A A B A A C
Si tratta quindi di una scansione lineare, continua, dove la volontà di non interruzione viene offerta dal “levare interno” che prepara (ed enfatizza) gli accenti principali del ¾. La cellula C, elevando al quadrato questo “levare”, rende maggiormente l’idea di una ripetizione ciclica della struttura ritmica, anticipando già il principio di costruzione - dal punto di vista del ritmo - dell’intera composizione. Già fin d’ora è bene sottolineare come B e C, sostituibili (e sostituiti) nella terza posizione delle battute, siano la sintesi dei due elementi strutturali fondamentali: la “binarietà” (B) e la “ternarietà” (C)
b) Scomposizione per cellule
Se noi consideriamo invece come A e come B, riducendo quindi l’analisi agli elementi fondamentali della scansione, avremo questo risultato:
A B A B A A A B A B B B A
In particolare, si metteranno in rilievo queste sottostrutture:
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B (a) B
A B (a) B A
A A A B B B
A A A (b a) B B B
B A A A (b a) B B B A
Ovviamente, siamo andati alla ricerca di centri unificatori, di parallelismi, di strutture simmetriche. A questo scopo, tra parentesi sono state indicate le “note perno” individuate all’interno della frase. E’ facile notare quindi alcuni fattori comuni a tutte le strutture elencate sopra. Innanzitutto il centro di una struttura simmetrica non cade mai su un tempo forte della battuta. Le simmetrie vengono costruite servendosi tanto dell’ “uguaglianza” che della “diversità”. Per spiegarci meglio: la prima sottostruttura è costruita secondo una simmetria di elementi A e B alternati attorno ad un perno costituito da una nota sola. La seconda sottostruttura, appoggiandosi ad un perno costituito da due elementi ritmici diversi si basa non sulle figure, ma sulle quantità. Per questo, la simmetria non viene più costruita semplicemente dalle posizioni di A o di B, piuttosto da “gruppi di tre”, cioè gruppi ternari interni alla frase ritmica. E’ chiaro che anche questa seconda situazione si colloca al di fuori degli accenti principali del ¾. Non è da sottovalutare questo fatto, proprio perché la stessa orchestrazione farà leva sui tempi deboli, da un lato per spezzare la monotonia del ritmo di Bolero, dall’altra anche per consapevolezza che Bolero è una composizione destinata alla danza, con una necessità, quindi, di alleggerimento anche quando la scansione ritmica può assumere aspetti particolarmente squadrati e pesanti. A questo proposito può essere importante notare il ruolo dei pizzicati di archi e dell’arpa, quando si sovrappongono al ritmo del tamburo: non viene sottolineato il primo accento della battuta, quanto il secondo e il terzo. E’ il primo segno, probabilmente, della liberazione del ¾ dal suo
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consueto andamento del “primo accento” forte, che fa molto valzer. Un poco invasante “un zà zà”.
Ma c’è dell’altro...
IL RIT(M)O DEL BOLERO. PARTE SECONDA: RITO.
Più di altre strutture accentuative, quella del Bolero contiene al suo interno un meccanismo rituale. La velocità della scansione non è molto alta, in partitura viene segnato un metronomo di 72 alla semiminima, e non sembra aspirare a una particolare enfasi retorica, o almeno solenne. Piuttosto la ripetizione, per lo spazio complessivo di 344 battute, assume una connotazione a metà tra rito e ipnosi. Non c’è accelerazione, durante il brano, eppure il carico strumentale fa sentire progressivamente un senso di invasamento, o almeno di progressivo coinvolgimento della persona durante l’ascolto. Qualcosa di simile successe alla première del Bolero, quando una signora si mise a gridare contro Ravel che era un pazzo. Ravel le diede ragione.
L’ascolto non sfugge, resta inchiodato, anche se la volontà (o il gusto personale) crea delle resistenze, o addirittura - come nel caso della signora - forti opposizioni. Sembra importante, tuttavia, sottolineare il minore contributo della melodia a questa concentrazione, o invasamento che dir si voglia. Il tema va avanti da sé, non ci riserva nessuna sorpresa, e diciassette ripetizioni sono abbastanza per rendercene conto. Come nel caso degli incantatori di serpenti di indiana memoria, non è il suono del flauto a tenere a costringere i cobra all’ “obbedienza”. Sono i movimenti del flauto, i gesti del suonatore. E anche nel caso del Bolero, è il ritmo a tenere vigile l’ascolto. E’ il ritmo ad obbligare l’ascoltatore ad un’attenzione che non è semplicemente analitica: Bolero è respiro, è battito cardiaco, tende ad una sintonia profonda con il ritmo biologico. La danza lo veste di gestualità, lo rende comunicazione esplicita, visuale, e anche implicita, cioè rituale. In questo senso Bolero è ipnotico. La
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scelta di Ravel, di comporre su elementi così minimi, essenziali, primordiali, porta immediatamente la sensazione di ascolto ad un campo che sfugge alla reazione cosciente, non diversamente da situazioni in cui vengono adottati altri ritmi con la stessa funzione, ad esempio durante le cerimonie sacre tribali o, venendo più vicino a noi, attraverso il reggae.
Le sottosuddivisioni del ritmo del Bolero che sono state evidenziate precedentemente hanno proprio la funzione di andare a colpire la profondità dell’ascoltatore scalzando poco per volta i criteri accentuativi regolari secondo i quali è costruita la percezione ritmica dell’orecchio occidentale. Come dice Marius Schneider: «Il ritmo musicale non è un fenomeno puramente intellettuale, bensì una forza psicofisica che trasforma i movimenti corporali in esperienza psichica e, viceversa, fornisce un contrappeso corporale alla sensibilità spirituale. L’uomo stesso è oggetto del proprio ascolto. Ma ciò che conta è il modo con cui ascolta: se cioè si lascia afferrare da ciò che ascolta, oppure se si lascia soltanto sfiorare da esso. L’ostacolo più grave all’influenza del ritmo è frapposto dalla nostra mente troppo analitica, a cui va imputata la definizione, inadeguata e addirittura falsa, secondo cui il ritmo è la “divisione aritmetica del tempo”1. L’asimmetria, quindi resta l’unica soluzione possibile: l’uomo già fisicamente, e anche anatomicamente, è asimmetrico o parzialmente asimmetrico. La stessa realtà si rivela importante anche nel respiro e nel senso ritmico delle persone: «Chi canta con rigida simmetria si stanca. Chi invece respira liberamente, seguendo una certa asimmetria o elasticità, cantando si sente sollevato»2. E’ un discorso chiaro, quello che fa Schneider, anche se non ha origine dal Bolero di Ravel. E infatti, su queste parole autorevoli, resta un dubbio. Se Ravel avesse voluto ritornare all’asimmetria primordiale, non sarebbe stato
1 Marius Schneider, Il significato della musica, Rusconi, Milano 19791, pag.147.
2 M.Schneider, cit., pag.148.
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sufficiente assumere un figura ritmica irregolare, ad esempio una misura di 5, o una misura mista di 4 + 3 ? Insomma: come si concilia questa ricerca dall’asimmetria con la ripetizione ossessiva delle due battute che per di più. Basandosi sul ¾, sono quanto di più pedantemente regolare si poteva scegliere ? «Girare - continua Schneider - significa ritornare su se stessi, ripetersi. Anche questa è una caratteristica tipica della nostra vita. Ed ecco che scopriamo un altro aspetto caratteristico del ritmo, eccellentemente definito da Klages3: il ritmo è la ripetizione dell’analogo, in quanto ogni giorno non si ripete con precisione la stessa cosa, ma ritorna ciò che è fondamentale con forme sempre nuove». Grazie, dottor Schneider.
LA MELODIA
Il primo particolare che emerge quasi a sbalzo sulla melodia, anch’essa ripetitiva, è la forte bipartizione. Individuiamo già dal primo ascolto un’area chiara, affermativa: il tema. Per contrasto, percepiamo un controtema più inquieto, leggermente disassato dalla tonalità così marcata ed indiscutibilmente maggiore del tema, che si conclude anch’esso sulla tonica, ma lascia all’ascoltatore una sorta di retrogusto amaro. Tema e controtema hanno comunque tre caratteristiche strutturali comuni: sono entrambi di sedici battute, come abbiamo già detto iniziano e terminano sulla tonica, all’ottava battuta si fermano entrambi a meditare sulla dominante.
Si diceva, diciassette ripetizioni identiche, più una variata sulla traccia della prima, sono sufficienti a lasciare l’impronta anche in una memoria debole. Se il ritmo, come abbiamo notato, è essenziale nella sua struttura e nella sua conduzione, anche il tema è concepito come una ornamentazione ciclica, che si serve in particolare della formula retorica dell’anadiplosi (A), del chiasmo (B), dell’allitterazione (C).
3 Si tratta di Ludwig Klages, essendo citato da Schneider nelle pagine precedenti. Tuttavia non viene data nel testo né una nota
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(TEMA)
[_____________B______________] [__________________B..
...B_________________] [____B_____]
[__________________A________________]
[__A__]...............................................[__A__]...........[__A__]
[_____________5/4_____________][_____2/4_____][______________5/4____________]
La semplicità apparente di questo tema viene smascherata da un’attenzione più particolare alla disposizione degli accenti metrici, e alla ripetizione di alcuni frammenti melodici. L’anadiplosi è la figura che ci offre maggiori possibilità di analisi in questo senso. Nell’ultima riga riportata sopra, la formula ritmico melodica contrassegnata con A viene ripetuta per tre volte con tre posizioni diverse, la prima sul primo tempo della battuta, la seconda sul terzo tempo, la terza sul secondo tempo. “Abbattendo” le stanghette e affidando un accento forte a ciascuna di queste tre cellule ci troviamo di fronte a una battuta di 5/4, a una di 2/4, a un’altra di 5/4. Ancora una volta il ¾ è un buon nascondiglio...
(CONTROTEMA)
> >. >
_______________C______________
bibliografica di riferimento, né si può desumere altra notizia su questo studioso.
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(continua)
Il controtema aggiunge una nuova figura retorica, l’aposiopesi o reticenza (C), funzionale ad esprimere il tono di dubbio a cui si faceva riferimento prima. L’insistenza del re bemolle, così marcata all’inizio, e poi così restìa a sciogliersi in duina, terzina e quartina discendente è a tutti gli effetti un grosso punto interrogativo da cui è difficile liberarsi.
Nelle prime battute del controtema, l’idea di spostamento degli accenti all’interno di un’anadiplosi (anche se in questo caso meno evidente) viene raccolta dal tema appena concluso. Le tre semiminime contrassegnate con “>” sono esattamente nella posizione delle cellule fatte notare in precedenza.
Il carattere interrogativo del controtema viene così a configurarsi come qualcosa di molto serio. Non si tratta semplicemente di un rapporto “classico” come quello di antecedente o conseguente, di tonica o di dominante, di maggiore o di minore. All’interno di un contesto armonicamente maggiore, il controtema è la voce di chi si interroga sulle possibilità di conciliazione tra elementi contrastanti. Abbiamo già notato come Ravel insista a sollecitare un rapporto dialettico tra elementi tra loro estranei. Quello che prima avveniva sul ritmo, ora avviene anche sulla melodia. La certezza della musica di tutti il periodo classico (la tonalità e il rapporto tra le tonalità) non è più un assoluto.
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Sia nel tema che nel controtema è comunque ben visibile il principio di ornamentazione. Sono frequenti le ribattute e i ritorni su note “forti”, ed è chiaro il carattere di contorno che assumono certi gruppetti di semicrome con funzioni di appoggio, di passaggio o comunque, di accessorio melodico.
IL RITMO E LA MELODIA: TRE CONTRO DUE, DUE CONTRO TRE
Pur all’interno di un sistema così semplice, dove gli elementi costitutivi non sembrano portar problemi così grandi nella costruzione di un tessuto musicale riconoscibile e coerente, vengono a formarsi alcune situazioni che complicano il risultato. Il senso di binario e ternario viene minacciato da una sovrapposizione di frammenti di diversa natura:
Qualche volta alla sovrapposizione si preferisce l’accostamento, come nel caso di
Il discorso tende ad un’ulteriore complicazione quando guardiamo il controtema, nel già ricordato passo del re bemolle. L’utilizzo della sincope conferisce a questa parte un senso di instabilità ritmica ed accentuativa che va ben oltre il semplice gioco di contrasto tra “due” e “tre”:
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Ciò che ritmo e melodia fornivano singolarmente, ora viene sistemato secondo una logica di stratificazione. Il risultato che si ottiene è un allontanamento progressivo dalla scansione regolare del tempo. Quello che poteva sembrare un modo omogeneo e fin troppo semplicistico di condurre una composizione per balletto assume le connotazioni di una varietà nascosta, da cercare con l’analisi, che di semplicistico ha ben poco. A meno che non si descriva, con le parole dello Schneider, quella sintesi realizzata tra lo scorrere (ir)regolare del tempo e l’ (a)simmetria dei fenomeni naturali. Il che vorrebbe dire, in poche parole, fare esperienza finalmente di una musica che non è fuori dall’uomo, ma è nell’uomo, fisiologicamente e psicologicamente.
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LA MELODIA AGLI STRUMENTI: L’ORCHESTRAZIONE
Ravel parlava del Bolero come di un «crescendo orchestrale». Tutto qua. A dire il vero, l’impressione di crescendo non è causata da una progressiva agglomerazione di timbri strumentali. Uno sguardo alla struttura generale è utile per notare come l’attribuzione del tema a diversi strumenti produca dei crescendo, ma anche dei diminuendo.
MELODIA
RITMO
[1]
flauto (Tema)
clarinetto (T)
[2]
fagotto (ControTema)
flauto
[3]
clar. piccolo (CT)
flauto
[4]
oboe d’amore (T)
fagotto
[5]
flauto + tromba (T)
corno
[6]
sax tenore (CT)
tromba
[7]
sax sopranino (CT)
cambia con soprano a 143
tromba
[8]
ottavini + corni + celeste (T)
flauto + corno
[9]
oboe, oboe d’amore, corno inglese, clar. e clar.basso (T)
trombe +corno
[10]
trombone (CT)
flauto + corno + viole
[11]
flauto, ottavino, oboe, corno inglese, clar. e cl.basso, sax tenore (CT)
corno + tromba + 2i violini
[12]
flauto, ottavino, oboe, clar. e 1i violini (T)
corni
[13]
flauto, ottavino, oboe, corno inglese, clarinetto, sax tenore, 1i violini all’8a (T)
corni
[14]
flauto, ottavino, oboe, corno inglese, tromba, 1i e 2i violini (CT)
corni
[15]
flauto, ottavino, oboe, corno ing., clar., 2 trombe, sax soprano, 1i e 2i violini, viole, violoncelli (CT)
corni a 4
[16]
flauto, ottavino, 4 trombe, sax soprano e tenore, 1i violini divisi (T)
oboe, clarinetto, corni 2i violini, viole, v.celli
[17]
flauto, ottavino, 4 trombe, trombone, sax soprano e tenore, 1i violini divisi (CT)
oboe, clar., clar. basso, corni, 2i v.ni, v.le, v.celli
[18]
flauto, ottavino, 4 trombe, sax soprano e ten. 1i violini
oboe, clar., corni, 2i v.ni, v.le, v.celli
Se quindi nella prima parte troviamo una scrittura cameristica, basata sui solisti, soltanto all’attacco [8] troviamo delle
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sovrapposizioni timbriche, e all’attacco [10] assistiamo addirittura ad una nuova riduzione della strumentazione utilizzata, con l’utilizzo del trombone solo. Questo passo è notoriamente additato da Alfredo Casella come un segno dell’evoluzione degli ottoni, e in particolare del trombone. In questo caso, secondo Casella, si sentirebbe la forte influenza del jazz sulla musica sinfonica, al punto che si parla di queste battute come “Tipo di solo jazzistico”4.
Il metodo che alterna nei diversi strumenti la funzione di solista o di parte ritmica segue solitamente un meccanismo di ricerca del timbro nuovo. La prima apparizione di uno strumento avviene generalmente in corrispondenza alla citazione del tema. Solo quando la funzione tematica viene esaurita, lo strumento passa dalla parte del ritmo, e lo sottolinea seguendo la nota scansione del tamburo. La presenza di coppie di strumenti viene così a essere, inizialmente, utilizzata per le sostituzioni, cosicché è possibile lasciare agli strumentisti la possibilità di riposo dopo aver scandito una nota fissa. Unica eccezione a questo proposito è rappresentata dai quattro corni. La loro presenza viene finalizzata ad un ispessimento progressivo della struttura timbrica. Come è noto, i corni vengono utilizzati come legame timbrico tra legni e ottoni. Ravel sceglie di utilizzarli anche per timbrare il tamburo, che assume risonanze più indirizzate al grave, utili a preparare un terreno favorevole all’ingresso di nuove stratificazioni sonore.
Non è corretto, quindi, parlare di un crescendo del volume, o della ricchezza timbrica. Ciò che cresce è estraneo al ritmo, alla melodia, e anche al timbro. L’orchestrazione è solo un pretesto. Il ritmo, lo abbiamo notato, è una costante ipnotica. La melodia è un
4 Alfredo Casella, La tecnica dell’orchestra contemporanea, Ricordi, Milano 1950, pag.98. Al di là di ogni possibile commento, credo che il jazz sia da lasciar stare. Che il trombone si sia sviluppato al punto da assumere un ruolo solistico, può ancora essere accettabile. Che il jazz sia implicato nel Bolero mi sembra meno plausibile, soprattutto pensando ai trombonisti che suonavano all’inizio degli anni ’30.
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legante. Tutti insieme sono solo dei mezzi. Il fine autentico del Bolero è un decollo progressivo della tensione musicale, qualcosa che non insiste quindi sulla quantità, ma sulla qualità timbrica, al punto che un trombone solo, dopo un tema esposto da oboe, oboe d’amore, corno inglese, clarinetto e clarinetto basso non dà sensazione di diminuendo, ma viene inserito senza problemi nella continuità del progressivo sviluppo strumentale. Portare al parossismo l’utilizzo della strumentazione sinfonica non ha di per sé nessun interesse dal punto di vista dell’ascoltatore. Potrebbe essere, al massimo, un esperimento applicabile in qualche brano da “spettacolo orchestrale” (alla Ketèlbey, per intenderci...). Ravel ha a che fare con un balletto. E ha a che fare con un pubblico. Questi due elementi non possono essere sottovalutati, perché in entrambe le direzioni la musica assume una valenza emozionale, che non può restare in secondo piano.
Possiamo anche interpretare in chiave antropo-psicologica la strumentazione, come abbiamo fatto per il ritmo? Normalmente, ci si limita a descrivere sensazioni, a coniare sinestesie più o meno interessanti, ma nulla di più. Su questa scia, accostare strumenti e sentimenti umani non porterebbe contributi determinanti in sede di analisi. Al massimo qualche esibizionismo lessicale. E allora, cerchiamo altro.
Qualcuno ha tentato di vedere nell’orchestra sinfonica la metafora dell’uomo totale, il modello trasformato in suono. Partendo da una teoria secondo la quale gli strumenti non sono altro che “parti del corpo” usate per produrre suoni (talvolta è evidente la corrispondenza tra la struttura fisica umana e la forma degli strumenti musicali) si cerca di individuare legami tra suoni ed emozioni. In particolare, secondo Claudio Gregorat, un’esecuzione di orchestra sinfonica raggiunge un risultato molto vicino alla struttura sensitiva dell’essere umano completo: «Quando ascoltiamo complessi di soli archi, legni oppure ottoni, sappiamo di assistere a un evento musicale
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parziale, di intenzionale separazione dell’essere totale, oppure a un’indagine artistica di approfondimento di una delle forze dell’anima»5. Conclude, in sintesi, che il gruppo degli archi sono il “sentire”, i legni sono il “pensare”, gli ottoni il “volere cosciente”, le percussioni (udite, udite!) il “volere inconscio”. Questo, probabilmente, non aggiungerà nulla di nuovo alla conoscenza del Bolero (lo stesso Gregorat si richiama molto più frequentemente ad altra musica, soprattutto a quella di Wagner), ma è sembrato comunque doveroso sottolineare che anche dal punto di vista dell’orchestrazione potrebbe essere interessante trovare una via d’analisi in grado spiegare l’uso degli strumenti oltre il loro aspetto tecnico.
Che il suono sia collegato ad emozioni, d’altra parte, è cosa facile da capire. E come Ravel ha creato nel Bolero un ritmo che va al di là di se stesso, e una melodia che poco per volta si fa dimenticare per andare anch’essa al di là, così forse è possibile che anche l’orchestrazione abbia in sé qualcosa di simile.
Si accettano scommesse.
DANZA, TENTATIVO DI LEGGEREZZA
Un aspetto che dobbiamo tenere in considerazione, e che la nostra mente tende solitamente a separare, è l’elemento della danza. Ida Rubinstein per questo aveva commissionato il Bolero, e in questa veste fu conosciuto. L’esecuzione concertistica, complice anche la felice possibilità riproduzione discografica, lo ha consacrato come brano di repertorio avulso dalla coreografia, e la notorietà del brano che lo ha lanciato tra i vertici delle vendite soprattutto nell’epoca dei 33 giri stereofonici (“un Bolero in tutte le case”) lo ha reso più facilmente identificabile con la colonna sonora di un cartone animato
5 Claudio Gregorat, L’anima degli strumenti musicali, Centro Scientifico Editore, Torino 1994, pag.125.
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(un nuovo capitolo per la disneyana Fantasia?) che con la base di un balletto con tanto di étoile.
Non viene dato nessun criterio per stabilire un’ambientazione. La Spagna? Forse. Ma sono solo mosse, non c’è una caratterizzazione così forte, come magari avveniva in modo molto più scoperto per il sottofondo di habanera de L’Heure Espagnole.
Viste le premesse, viene da pensare che il Bolero sia stato concepito come la danza. Un tentativo, cioè di creare musicalmente quell’effetto primordiale che la danza ha: rito e ritmo, si diceva prima. Ma qui bisogno aggiungere: volontà di leggerezza, affrancamento dalle forze gravitazionali terrestri. E sul Bolero, a questo proposito, si accende qualche luce in più. Crescendo strumentale, si diceva. Ma allora, come inquadrare l’attacco [18], quella modulazione in mi maggiore? Soprattutto, perché far crollare letteralmente il castello orchestrale ancora una volta sul do finalis?
Proviamo a pensare una nuova opposizione tra “verso il basso” e “verso l’alto”. Tutta la composizione è una linea ascendente, si è detto, non in quantità strumentale, ma in tensione musicale. La modulazione in mi potrebbe essere qualcosa di molto simile a un decollo raggiunto, a un distacco da terra, dove finalmente il progetto di affrancamento dalla gravità non è più una tensione causata da un’opposizione, ma è il vertice del sollevamento (o invasamento che dir si voglia). La realtà dell’uomo deve però fare i conti con una più forte attrazione verso il basso, un ritorno al do senza diesis né bemolle, ad una linea melodica che da battuta 339 in avanti (i famosi glissati degli ottoni) cerca di prendere definitivamente una direzione ascendente. E che solo nell’ultima battuta, fermato il ritmo, disarticolando l’insieme strumentale, perdendo addirittura la terzina sferzata sulla seconda croma della battuta, insomma perdendo le ali, ricade su un perentorio do. Quello dell’inizio. In poche parole: tutto da capo.
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LA RISPOSTA DI LÉVI-STRAUSS
La vita ci pone di fronte a contraddizioni. E qualche volta è difficile capire come sia possibile uscirne, o quale sia il modo per giungere ad una conciliazione. Nella storia dell’uomo il mito ha proprio avuto questa funzione: dare la sicurezza che le opposizioni possono essere superate, che esistono strade di sintesi, che ci si può districare nelle contraddizioni talvolta eccessive, o eccessivamente dense.
E’ Claude Lévi-Strauss a riferire questi ragionamento al Bolero di Ravel. L’ultimo capitolo del suo libro L’homme nu, che musicalmente si intitola Finale, contiene diverse pagine sulla musica: come conciliazione di sensibile e intelligibile, come equilibrio di tragico e comico, come Bolero. Partendo da una citazione di Pousseur, Lévi-Strauss conduce una riflessione molto acuta sulla composizione che va da un estremo all’altro, e che trova nei due estremi un fattore comune. E il Bolero viene smontato partendo da questa idea di base. Tema e controtema non sono conciliabili, e Ravel ce lo dimostra costruendo quella che Lévi-Strauss definisce “una fuga spianata”, una successione, senza sovrapposizioni, di soggetto e controsoggetto. L’altra opposizione è quella che si crea tra ritmo e metro, ma di questo abbiamo già parlato: il metro della battuta (il ¾, per intenderci), perde la sua fisionomia regolare quando viene a contatto con una melodia che cerca ad ogni passo di scalzarne la natura ritmica originaria. Ritroviamo, quindi, l’opposizione simmetria - asimmetria su cui già si è detto nelle pagine precedenti. Anche la tonalità è di per sé un’opposizione. Il tema, ormai lo sappiamo, è in do maggiore, ma il controtema sembra tanto (pur senza esserlo) un fa minore, con ben quattro bemolli di differenza. «Ammesso questo - dice Lévi-Strauss - possiamo vedere come tutta l’opera cerchi di superare un insieme complesso di opposizioni, che sono come incastrate le une dentro le -19-
altre. (...) Per conciliare questi contrasti, il compositore si rivolge di colpo all’unica dimensione musicale non ancora compromessa nella disputa: quella del timbro strumentale. Sollecitati dapprima come solisti, gli strumenti si associano a due a due, quindi si combinano in numero sempre crescente finché non appare chiaramente che ogni soluzione sfugge quando si arriva al “tutti”, cioè quando la qualità si trasforma in quantità e l’intero volume sonoro a disposizione non si dimostra d’alcun aiuto»6.
Quello che Lévi-Strauss propone non è semplicemente una cronaca di un brano musicale. E’ l’affermazione che Ravel si è buttato alle spalle le certezze della musica occidentale e ha lavorato come se nulla mai fosse stato scritto o ascoltato. Le caratteristiche fondamentali del suono (altezza, intensità, timbro, e insieme a queste l’organizzazione diacronica degli elementi, cioè il ritmo) sono state scomposte, separate, scoperte e studiate da capo. Non c’è più forma, e le strutture maturate dalla Storia della Musica durante il suo lungo cammino non vengono tenute in considerazione. E’ un violento ritorno alle origini, dove la primordialità (Lévi-Strauss direbbe “il crudo”) viene cercata quasi con affanno. L’orchestrazione, come Ravel la concepisce per l’ operazione Bolero, è ridotta ad un semplice fatto di mestiere che qualsiasi allievo compositore dovrebbe saper compiere. Quel “mestiere”, segno di sproporzione tra tecnicismo e idee, ben evidente nei maestri del Conservatoire che l’hanno pluribocciato al Prix de Rome, viene assunto da Ravel come punto di partenza: limitando la propria azione al suono, e non alla forma, ritorna all’essenza degli elementi costitutivi della musica.
Quando il pieno orchestrale avverte che non è più possibile andare oltre, se non tornare indietro (come afferma Pousseur), l’unica soluzione possibile è ancora quella della modulazione. E si tratta, come già detto, di una modulazione improvvisa in mi maggiore. Con
6 Claude Lévi-Strauss, L’uomo nudo, cur. Enzo Lucarelli, il
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la bellezza di quattro diesis di differenza. Quattro diesis da una parte, quattro bemolli dall’altra, e in mezzo il bel vuoto di diesis e bemolli del do maggiore in chiave. Anche qui troviamo delle opposizioni...
Secondo Lévi-Strauss quella del mi è la soluzione, perché il re bemolle del controtema appartiene a fa minore (quarto grado della tonalità di do, con il “sesto grado abbassato”) e al tempo stesso appartiene per enarmonia (do diesis) a mi maggiore. Il re bemolle che avevamo ascoltato finora con sospetto si rivela, all’attacco [18] il punto di convergenza tra l’inizio e la fine dell’intero Bolero. «Allora, come in una fuga propriamente detta, i piani sovrapposti del reale, del simbolico e dell’immaginario si susseguono, si raggiungono e si sovrappongono fino alla scoperta della tonalità giusta, benché per tutta la durata del brano questa tonalità fosse rimasta allo stato di utopia»7
E ANCHE L’ORCHESTRAZIONE SI CONCILIA...
Gli ultimi strumenti a comparire come sottolineatura del ritmo sono grancassa, piatti e tamtam: «il primo è ritmo senza timbro, il secondo è timbro senza ritmo, il terzo è la sintesi sonora dei due». Lévi-Strauss ha vinto la scommessa: anche per l’orchestrazione c’era una chiave di lettura. Così tutti i conti tornano, e - sembra - non rimane più alcun punto oscuro.
MA RAVEL, LE AVRÀ PENSATE TUTTE QUESTE COSE ?
E’ sempre difficile dire fino a che punto un artista realizzi ciò che pensa e pensi ciò che realizza. Dal punto di vista di chi conduce un’analisi, far troppe concessioni alla propria fantasia interpretativa può far dire alla musica, come a un testo qualsiasi, il classico “tutto e il contrario di tutto”.
Saggiatore, Milano 1974, pag.627
7 Lévi-Strauss, cit., pag.629
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Accidenti: ancora contrari, specularità e opposizioni. Ravel, quando si mette, fa proprio le cose per bene. Ma il dottor Lévi-Strauss, amante della conciliazione degli opposti, ricercatore accanito della musica come unità di stimolo e di risposta, di esperienza e di memoria, viene in aiuto ancora una volta. «Anche se Ravel definiva il Bolero come un crescendo strumentale e fingeva di considerarlo semplicemente un esercizio di orchestrazione, è chiaro che il lavoro ha ben altri significati. Si tratti di musica, di poesia o di pittura, l’analisi delle opere d’arte non andrebbe lontano se ci si fermasse a quello che gli autori hanno detto o magari creduto di fare»8.
Ogni artista viene superato dalle opere che produce. Il mestiere è artigianato. Sta nella testa e nelle mani. Ma l’Arte supera la testa e le mani. Se ne serve, e le supera. Gli stessi artisti sovente confessano di ignorare i passaggi che han dato vita ad un certo risultato, e che lo rendono irripetibile, nonostante gli sforzi più sovrumani. E’ forse questo, ciò che normalmente chiamiamo ispirazione?
Così accolgo l’idea di Lévi-Strauss. Non perché ipse dixit. Semplicemente, sento di potermi fidare di lui.
Concludendo in questo modo, mi sento molto più tranquillo.
Alba, 20 maggio 1997
8 Lévi-Strauss, cit., pag.623
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BIBLIOGRAFIA
MAURICE RAVEL, Bolero (partitura d’orchestra), Durand, Parigi 19291
MARIUS SCHNEIDER, Il significato della musica, Rusconi, Milano 19791
CLAUDIO GREGORAT, L’anima degli strumenti musicali, Centro Scientifico Editore, Torino 1994
CLAUDE LEVI-STRAUSS, L’homme nu, Librairie Plon, Paris 1971, (tr. It. L’uomo nudo, cur. Enzo Lucarelli, il Saggiatore, Milano 1974)

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